Capitolo 23
Jakob aveva appena ucciso John Taider, e tanto gli era sufficiente. Lo scontro, infatti, gli aveva sottratto molte forze e sperò che Josafat avesse ucciso anche gli altri, cosicché il suo piano di vendetta trovasse il compimento.
Vendetta… Jakob aveva avuto qualche dubbio dopo aver ucciso il Cavaliere Corrotto, tuttavia, camminando fra gli odiati corridoi della Villa, non aveva più remore. Aver portato con sé Josafat nel Labirinto, quindi, era stata la mossa più azzeccata. Era il Mangiacuore, nessuno si sarebbe potuto sottrarre al suo braccio maledetto.
Non avrebbe mai dimenticato ciò che aveva visto fargli quando era sulle sue tracce. Morti ovunque, tutti trapassati sul torace, privi del cuore. Jakob si chiese se il suo fratello minore avesse mai fatto un pasto decente da quando si era allontanato dalla famiglia.
In ogni modo, non trovava Caleb. Dove si era cacciato? Doveva parlare con suo padre per forza? Poi ricordò: Caleb era stato mandato dalla sua truppa, a chiudere l’assedio di Adelaide e delle città del Sud.
La sua truppa… molti ricordi si affollavano nella sua mente, ricordi felici che adesso trovava odiosi. Lui, Isaiah e Caleb, quando non c’era un pensiero al mondo che lo poteva sconvolgere, tutti e tre assieme che conquistavano, soggiogavano e uccidevano per il nome della Casa.
Ma adesso, tutto quel sangue che aveva versato gli stava chiedendo il conto. Era davvero sicuro che ciò che stavano compiendo era giusto, era il corso naturale della storia? Jakob non ne aveva idea. Ad un certo punto, mentre osservava lo splendido giardino che sorgeva di fronte alla Villa dal balcone principale, Frederick fece capolino alle sue spalle.
“Perdonatemi, signorino, ma vostro padre desidera vedervi” disse.
Jakob si chiese che cosa volesse quel bastardo. Doveva dare da mangiare a Josafat, oppure, chissà, fargli fare l’inserviente?
Andò in ogni caso nell’odiato studio e bussò tre volte.
“Avanti” disse Abraham, e Jakob entrò, sedendosi sulla sedia davanti la scrivania.
“Figlio mio” esordì Abraham. “Ti stavo cercando, per chiederti scusa per quanto riguarda la mia reazione eccessiva. Insomma, ti ho sparato ad una gamba ed al momento non posso proprio permettermi di litigare coi miei stesi figli. In fondo, sei nella scomoda situazione di essere il terzogenito di una grande dinastia, davanti a te hai sempre avuto Caleb e Isaiah che sono ragazzi già di per sé straordinari, e inoltre portano il nostro cognome sulle spalle… cognome che su di loro non ha mai pesato. Tuttavia, noto che su di te pesa eccome. Ad esempio, sei scomparso per qualche ora. Dove sei stato?”
Jakob non rispose, dando segno però di aver subìto la domanda, irrigidendosi sulla sedia.
“Ebbene?” incalzò Abraham.
“Sono andato… fuori” rispose vago Jakob, ma Abraham decise di insistere, perché sapeva che il figlio gli nascondeva qualcosa. “Fuori dove? Non ti ho dato direttive precise, perciò ne deduco che tu sia uscito di testa tua. E dove sei andato?”
Jakob arrossì lievemente, ma prima di rispondere celò il disagio che sentiva, poiché decidendo di non avere più paura del padre, doveva portare avanti la sua ribellione. “Non devo venirlo a dire a te, ho superato quell’età”
“Certo, ma vedi… è scomparso anche Josafat. Io ti ho sparato alla gambe e allora ho fatto due più due.”
Una pausa carica di tensione e poi Abraham sbatté le mani sulla scrivania.
“Sei stato al Labirinto portandoti dietro il mio figlio più giovane, non è così? Ti ho dato la possibilità di confessare spontaneamente, ma a quanto vedo hai palesemente rifiutato! Sono esterrefatto, perché mi remi contro? La gloria degli Hesenfield…”
“AH, CERTO!” esclamò urlando Jakob. Non poteva più sentire nemmeno pronunciare quella parola. “A te interessa solamente questo maledettissimo cognome! Dei tuoi figli, mio caro bastardissimo PADRE, non te n’è mai fregato nulla! Dimmi, dov’eri quando Josafat è impazzito? Eh? E dov’eri quando mi hai sparato ad una gamba? Dov’eri? DIMMELO, DANNAZIONE!”
Jakob, preso dalla furia, aveva afferrato il suo stesso padre per la collottola, salendo sulla scrivania per farlo.
“Attento, Jakob” sibilò furibondo Abraham, fissando gli occhi disperati del figlio con i suoi. “Un’altra parola negativa sulla mia condotta e…”
“E cosa? Cosa farai? Intendi uccidermi?” Concluse per lui Jakob, con una nota di amarezza. “Ci hai uccisi, a me e i miei fratelli, non sai nemmeno tu quante volte lo hai fatto! Siamo cresciuti senza un padre, vivendo col paraocchi di questa fottutissima famiglia di merda e dei castelli che ti sei costruito da solo. Siamo cresciuti con assurde convinzioni, ma io ho scoperto la verità. Dimmi, padre… che cosa ne hai fatto dei tuoi fratelli?”
Abraham alla fine comprese cos’era che turbava il figlio. Era comprensibile, dopo il colpo ricevuto, andare a indagare su avvenimenti che non dovevano essere scoperchiati per nessun motivo. Tuttavia, il suo terzogenito non desiderava ricevere risposte, perché proseguì col suo monologo.
“Te lo dico io, se non te lo ricordi” disse. “Li hai uccisi tu, tutti quanti, e hai fatto fuori anche i parenti di mia madre, la tua stessa moglie! Ma di chi sono figlio? Che schifo, non voglio nemmeno toccarti!”
Finito di dirlo, lanciò suo padre contro la finestra dietro la scrivania ed estrasse la spada.
“Io, Jakob… McNobly, in qualità di soldato delle’esercito del Triregno ti condanno a morte”
Abraham sentì suo figlio definirsi col cognome di sua madre. Fu quello, soprattutto, a ferirlo. Ciò voleva dire che non era più suo figlio e che occorreva aggiornare il blasone di famiglia, riducendo le stelle a sei.
“Jakob… Jakob” disse Abraham, accendendo le mani utilizzando la Tecnica del Fulmine propria della Magia. “Tu non sai chi hai condannato a morte. Osi uccidere il tuo Re?”
“Sì, oso” rispose Jakob, puntando la spada “perché ci sono crimini impuniti e un colpevole a piede libero, e io devo aggiustare le storture di questo mondo. Non sei migliore di chi vuoi spodestare e tanto vale ucciderti”
“E mettere te stesso al mio posto, vero?” chiese con una punta di sarcasmo Abraham.
“Chissà” rispose sogghignando Jakob. Stava per profilarsi uno scontro intenso, chiuso nella stanza limitata di Abraham, composta da una libreria, la scrivania e le vetrate, illuminata di notte da un lampadario di cristallo.
Fu Jakob ad attaccare, provando a lanciare un fendente contro suo padre, che lo scansò e lasciò che la spada fendesse invece l’aria, e dato che il capofamiglia degli Hesenfield si era spostato alla sinistra di Jakob, sperò che fosse il lato più debole del figlio, e gli scagliò contro un fulmine, che tuttavia venne schivato da Jakob dimostrando una prontezza di riflessi che solo chi aveva combattuto senza interruzione per tutta la vita poteva avere.
Abraham, invece, l’ultimo scontro serio che aveva avuto era stato contro Shydra sei mesi prima, dopo una lunga pausa, forte della sua supponenza e arroganza nel sentirsi più potente dei figli.
“I miei fratelli si sono sacrificati affinché io potessi diventare Re!” esclamò furibondo Abraham, mentre cercava di colpire il figlio ma incenerendo solo gli oggetti della stanza “E, per quanto riguarda i parenti di tua madre, erano dei buoni a nulla, senza nome né storia, utili solo come cadaveri, in modo da trasformare mia moglie e vostra madre in una vera Hesenfield!”
“Tutte balle!” rispose di rimando Jakob, tagliando in due la scrivania con la spada, ignorando il padre. “Adesso muori!”
Abraham sapeva che Jakob aveva tagliato in due la scrivania solo per far sì che mostrasse la sua vera potenza, e inoltre una volta che si era chiamato McNobly non era più nemmeno suo figlio. E le serpi andavano eliminate, esattamente come aveva ucciso i suoi due fratelli e la sorella, e i relativi figli.
Utilizzando ancora la Tecnica del Fulmine, Abraham ne scagliò un buon numero tutto attorno alla stanza, non lasciando al terzogenito modo di fuggire dalle scosse, tuttavia Jakob rispose con la Tecnica del Fuoco e le due tecniche esplosero mandando in frantumi i vetri della stanza e molti calcinacci.
Dopo che il polverone si abbassò diedero vita a un violento corpo a corpo, fatto di colpi veloci e precisi, e alcuni schivati, e alcuni presi in pieno, in faccio o sul petto. La spada di Jakob giaceva dimenticata a terra.
Abraham, vista la situazione di parità, decise di infliggere un colpo risolutivo al figlio, utilizzando la Tecnica della Terra trasformando la sua mano destra come un diamante.
Caricò e Jakob tuttavia parò quel colpo micidiale, perché lui aveva dal canto suo risposto con la Tecnica del Fuoco trasformando il suo pugno con quell’arte. Seguì un’altra esplosione la cui onda d’urto allontanò i due contendenti, facendoli cadere a terra.
“Jakob” chiamò Abraham col fiatone. “Devo dire… devo dire che non mi aspettavo questa potenza”
Jakob non rispose nulla. Era forse il primo vero complimento rivolto a lui soltanto, e pronunciato solo dopo il suo rinnegamento ai colori della famiglia. Il solo pensiero gli faceva male.
Impugnò la spada e tornò a guardare truce il proprio genitore, e poi il suo pensiero tornò a sua madre. Chissà che cosa era successo in effetti, quando quel giorno autunnale la carrozza era arrivata e lei e Isabel se n’erano andate da quel maniero. Che avesse scoperto la verità?
Doveva saperlo, e per farlo doveva uccidere suo padre. Nel pensarlo, si era accorto che aveva il fiatone. Sapeva quindi di aver già vinto.
“È finita, Abraham” disse Jakob. “In questo scontro ti sei consumato molto, mentre io sono ancora fresco. Più ti muoverai, più ti stancherai, quindi passo subito a dare il colpo di grazia”
Sollevò la spada e la puntò verso suo padre, mentre quest’ultimo osservò ancora una volta l’amato studio. Era irriconoscibile: tutto era stato distrutto, dai libri ai muri al vetro, e gocce di pioggia stavano penetrando dentro la stanza. Era così che Abraham Hesenfield se ne sarebbe andato? L’idea gli balenò nella mente, subito scacciata via, anche se il suo cuore aveva preso ad accelerare.
“Gioco l’ultima carta” dichiarò Abraham, ferito in molti punti e contuso sulla guancia sinistra. Improvvisamente le sue braccia si illuminarono, e Jakob capì. Ricordò quando era bambino che lui stesso, l’uomo che odiava e che pure lo aveva generato, gli aveva menzionato le Tecniche Arcane della Magia.
Erano tre ed erano estremamente pericolose, se non si sapeva padroneggiarle per bene. Una di quelle era il Colpo della Fenice, basata sulla Tecnica del Fuoco, la seconda era il Golem, che permetteva di rivestire l’intero corpo di pietra, e la terza era il Colpo di Thor, basata sulla Tecnica del Fulmine e in grado di distruggere una metropoli come Sidney; pertanto anche Jakob sarebbe rimasto incenerito da quella tecnica e doveva assolutamente fare qualcosa.
“Morirai… e morirai soffrendo come non hai mai sofferto in vita tua! Come osi pensare che io non mi siederò sul Trono? Gli Hesenfield sono destinati a sopportare il peso del mondo, se ancora non l’hai capito!”
Ecco, Jakob deglutì. Abraham era pronto per scagliare un attacco di proporzioni mai viste e Jakob si sentiva nudo e indifeso, pur avendo l’armatura e una spada leggendaria.
“Eccomi!”
Abraham saltò e sollevò il suo pugno raccogliendo tutti i fulmini sul suo braccio. Esattamente come il martello di Thor della mitologia, anche Abraham in quel momento avrebbe deciso la vita e la morte di molti nel circondario.
Abraham non avrebbe mai immaginato di usare quella tecnica contro uno dei suoi figli… che tempi! Dove si sarebbe arrivati? Qual era la sorte del mondo? E inoltre, sarebbe stato pronto a uccidere Jakob, il figlio non voluto, quando si aspettava una femmina?
Abraham, per la prima volta, ebbe un magone alla gola.
Jakob, invece, osservò il proprio padre con un misto di odio e di pietà e, nel panico totale, intuì un punto scoperto da colpire.
Jakob, il terzogenito, il meno amato fra i tre, eccettuato Josafat che ad ogni modo era riuscito a costruirsi una fama da sé. Jakob, colui il quale era il più attaccato al cognome nonostante tutto, colui il quale eseguiva sempre a puntino tutti gli ordini ma di cui Abraham, tuttavia, non ne aveva mai riconosciuto il talento.
Così, con uno scatto felino, Jakob Hesenfield emettendo un urlo infilzò il cuore di suo padre, trapassando dunque il trace da parte a parte con la spada, evitando la catastrofe promessa dai fulmini, che si limitarono ad incendiare il braccio del mittente.
In quel momento la pioggia si intensificò e in lontananza un rombo cupo annunciò la morte di Abraham Hesenfield, Re promesso e mai diventato.