La Ropa Sucia/326

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Dentro il tetro castello dei Garcia gli eventi si susseguivano. Soprattutto, c’era una stanza, fra quelle, che era lo studio di Romàn Garcia, il quale avava accanto a sé un certo Jorge Gutierrez. Dietro di loro, una grande vetrata che li proteggeva dalla poioggia battente, che coi suoi ticchettii stava scandendo il tempo.

Di fronte a loro, invece, una scrivania. Di fronte alla scrivania un uomo, che stava raccontando la storia degli ultimi suoi mesi, probabilmente di vita.

Era Ambrogio il maggiordomo, il quale aveva rivelato il suo più grande timore, ovvero quello di battersi a duello col giovane e  atletico Ramòn Fernandez, e di come egli stesso aveva cercato di posticipare il più possibile quel momento. Era stato disposto anche a comprare una lavatrice, macchiando i Sanchez e sconvolgendo Vilal Nueva.

“Ti chiedo solo una cosa” disse Ramòn, scosso a causa di quello che aveva sentito. “Avresti mai immaginato che un giorno ti saresti ritrovato con Villa Nueva in fiamme?”

Ambrogio assunse uno sguardo perplesso. “No. in realtà mi aspettavo solamente che i Fernandez rinunciassero. Voglio dire, davanti a una lavatrice tutti scappano. Sapete, lei gira, e non credo che esista qualcuno al mondo che abbia voglia di farsi rigirare in quel modo. Ecco perché ne ho comprata una. L’unica cosa che mi viene da pensare è che non era previsto che se ne azionasse un’altra, quindi gli eventi attuali sono da attribuire alla lavatrice di Edmundo… o a quella dei Sanchez?”

Romàn Garcia non seppe rispondere, ma nemmeno Jorge. Era incredibile che tutto si rimandava a tutt’altro, per poi distruggersi a vicenda.

Ambrogio rimase dunque disatteso e se ne andò dalla Villa, tornando alle sue mansioni.

“Non pensavo che la mossa avrebbe dato questi frutti. Ho parecchio sottovalutato la potenza de la sensualità di mia nipote Raquel” disse Romàn. Detto ciò, sciolse la seduta e andò chissà dove, forse in bagno.

Nel frattempo, el tiburòn aveva detto ciò che pensava. Non era del tutto scontato, non era scontato nemmeno che el tiburòn dicesse qualcosa in generale.

Sospirò, il ragazzo. Era ricercato dalla polizia, che ancora non lo avev arrestato. A quel che pareva, bastava rintanarsi a Villa Gutierrez che la poilizia ritardava le sue operazioni, per qualche strana reagione che né lui né sua madre Pepa aveva ancora afferrato.

El tiburòn si sedette sul divano comodissimo del salotto, in preda a grandissimi sensi di colpa e un tremendo mal di testa. Qualche minuto dopo, arrivò anche Ambrogio.

“Oh,  sei qui” disse Ramiro Paulo. “Come al solito, fai il giro di ronda per spiarci, vero?”

Ambrogio non sentì assolutamente nulla e com,inciò a fare i lavori per cui era pagato. Poi notò che una tazza di tè era stata lasciata intonsa sul tavolino, e fissò el tiburòn. Che cosa gli stava succedendo? Forse fare i graffiti gli stava togliendo sonno oppure stava nascondendo qualcosa di più grande?

“Tu nascondi qualcosa” disse Ambrogio.

“Silenzio, Ambrogio, e servi mia madre”

Il maggiordomo sdegnato per non aver ricevuto risposta se ne andò, per coincidenza a servire la madre di lui, Pepa Gutierrez, che da quando era evasa aveva sempre vissuto a casa sua, e saltuariamente uscire per andare a trovare le amiche o semplicemente per spiare la vita di paese, soprattutto in prossimità della sagra dell’asado che avrebbe impegnato molti giovani forzuti.

“Pepa… oh?”

E le lavatrici continuavano a girare…

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