La leggenda dei tre compagni e del figlio della luna/44

la leggenda dei tre compagni e del figlio della luna

Lord Habraxan non avrebbe mai creduto a chi gli avrebbe raccontato, da esterno, la strana storia che aveva appena appreso. Eppure tutto tornava.

Davanti a quel cipresso c’erano esattamente quattordici tombe. C’era anche una carcassa di un cavallo, della cui morte non riuscì a spiegarsi. Mentre rifletteva, giunse a lui Alec, il suo compagno più caro, il primo a unirsi al Regno invisibile, sicuramente di ritorno dalla sua indagine a Droword.

“Allora?” chiese Habraxan, per nulla intimorito da quell’apparizione così improvvisa.

“Lord Knor è stato molto cordiale” disse lui. “Mi ha raccontato della battaglia avvenuta nella sua città, di come lui e il suo palazzo siano stati incantati in modo da ignorare i Sotterranei e di come poi, alla loro sconfitta, si siano ripresi. Tutto è stato merito di sir Edward e, a quel che pare, di un ragazzo dalla pelle bianca più del latte. Non è riuscito a descrivermi esattamente quanto chiara fosse la sua pelle, ma penso più della tua”

Habraxan prese a tremare e si mise due dita all’estremità del naso. Aveva bisogno di tornare a casa.

“Va… va bene, Alec” disse lui. “Hai fatto un ottimo lavoro. Te la sei presa comoda” osservò.

“Non dipende da me” spiegò lui. “Ho voluto studiare chi fossero i Sotterranei ed effettivamente c’era un’intera biblioteca a disposizione nascosta proprio sotto terra. Ciò che ne è venuto fuori…”

“Non serve più” tagliò corto Habraxan. “Ho eliminato gli ultimi residui di quei bastardi”

Alec non si stupì più di tanto. “Sei il migliore”

Una volta giunti alla base a cavallo trovarono David, che salutò cordialmente.

“Mio signore, Alec” esordì. “Il carico è ufficialmente partito per la capitale”

Habraxan annuì. “Teodolinda ha fatto un ottimo lavoro”

Certo che lo aveva fatto, si disse. Era una donna fantastica, l’unica che amava. L’unica che non lo considerava un mostro.

Si sedette di fronte a David. “Penso che parte del carico possa venire rubato” disse. David scosse la testa.

“Anche Teodolinda è diretta alla capitale. Non capisco come potrebbe accadere questo tipo di furto”

“Ti fidi di Silvanus?” Chiese Habraxan. “Non ho molto gradito il suo atteggiamento negli ultimi giorni. Mi serve, ma mi rema anche contro. Vedremo quale sarà il suo ruolo in tutto questo”

E attesero. Habraxan comunicava quotidianamente con Teodolinda, e lei rispondeva, infondendogli dolci parole. Fra loro esisteva un rapporto unico, era ciò che si dicevano a vicenda. Una relazione che Habraxan amava e che lei teneva viva con tante manifestazioni di affetto. In particolare, lui era sicuro che solo loro due si amassero davvero, a differenza di qualsiasi altra coppia.

Un giorno, però, la loro connessione durò più a lungo del previsto e parte del prezioso Artiglio di Gatto venne trafugato, finendo dunque nelle tisane di molti villaggi prima di giungere alla capitale.

“Ti sta bene anche così?” Chiese Teodolinda.

“Sì” rispose lui senza pensarci troppo. “Si, perché tu stai bene. Si, perché con te sono felice e qualunque errore tu possa commettere non è mai colpa tua, ma nostra. Nostra, Teodolinda. Non siamo più io o tu, ma noi. Noi vinciamo e noi falliamo, insieme. Sempre. Come una carne sola, finché morte non ci separi.”

Di certo, Habraxan quando prendeva quei discorsi arrivava sempre al cuore di Teodolinda, che si riscaldò arrivando a desiderare di abbracciarlo. E stare tra quelle braccia impaurite ma al tempo stessi così sicure di quel che provavano era ciò che chiedeva. Alzò la testa rivolta alla luna morente.

“Grazie” sussurrò. “Grazie per questo tuo figlio d’argento, così puro e semplice, che ama me, fra tutte. Ed io amo lui.”

Amo lui, pensò.

“Neanche la morte oserà separarci.”

Teodolinda giunse alla capitale e vi dormì un giorno, in modo da aspettare Habraxan e fare visita a Silvanus.

Quella mattina arrivò presto. Lui, Alec e David arrivarono nella piazza principale, dove lei li accolse con un sorriso.

Abbracciò i due cari amici, ma arrivata ad Habraxan esitò. Sembrava corrucciato, come se stesse pensando a qualcosa di orribile.

“Posso… abbracciarti?” chiese.

“C’è caldo” disse lui. Era coperto di un manto nero. “Vediamo di chiudere in fretta”

Fece per andare verso la bottega ma un’esplosione entrò nelle orecchie di tutti.

“Ci sono disordini a palazzo!” esclamò Alec. “Devo andare a vedere!”

E corse, senza aspettare un ordine specifico.

“È strano” commentò David. “Cosa ha combinato a Droword in tutto questo tempo?”

“Non lo so” ammise Habraxan. “Non me ne sono occupato. Lasceremo tuttavia che lui isoli la zona, mentre noi andremo proprio da Silvanus”

Ci andarono a piedi, senza dover per forza utilizzare la magia per spostarsi più velocemente. Era desiderio di Habraxan camminare con Teodolinda, donarle una passeggiata e farle vedere i drappi, i colori, i vari odori delle spezie e la vita che si conduceva alla capitale. Lei conosceva già tutte quelle cose, ma accompagnata da lui ogni cosa assumeva un altro sapore.

Era bellissimo sentirlo parlare. La musicalità della sua voce e il potere che donava all’immaginazione altrui portava l’auditore a un’estasi mistica. Inoltre, passeggiando come stavano facendo loro, Teodolinda godette ancora meglio di tutti gli scorci che osservava, imprimendoli nella mente.

Giunsero dunque da Silvanus troppo in fretta, evitando un cane che fuggiva latrante. Non trovarono nessuno, visto che l’animale di quel maledetto era stato spaventato per qualche motivo. Tutto era chiuso, sprangato, il negozio sembrava abbandonato da anni.

“Crede di farla a noi, il vecchio?” chiese divertito David.

“Be’” commentò Habraxan. “non puoi fare altro che scappare, quando il gatto ti bracca. In quanto topo, sai bene che hai ben poche speranze.”

Tese un braccio e, pronunciate alcune parole, la porta si aprì cigolando. Entrò per primo, incuriosito dal buio.

La sala era vuota. Non c’era nessun bancone, nessuno scaffale, nessuna boccetta. Del negozio di Silvanus non era rimasta alcuna traccia.

“Silvanus!” gridò imperioso Lord Habraxan, cominciando a perdere la pazienza.  “Più tempo passi a nasconderti, più lunga sarà la tua agonia!”

Passarono lunghi secondi. Nel frattempo, Habraxan sentì un brivido lungo la schiena. Alec doveva essere stato sconfitto. Andò a verificare con la mente ed effettivamente era stato travolto da una massa di persone, che lui non riuscì a bloccare. Chissà come mai non aveva usato la magia. Alec, tornato da Droword, era diventato molto strano. Pace all’anima sua, si disse.

In effetti, lo aveva deluso.

Silvanus venne fuori. Non sembrava preoccupato. Aveva sempre la stessa faccia, si disse Habraxan.

“Sei stato tu a imbrogliarci” lo accusò. “Dimmi, di quale morte preferisci morire?”

Silvanus arricciò le labbra. “Perché decretare la mia morte, quando invece questo scontro potrebbe rivelarsi un vantaggio? Pensateci bene. Io…”

Habraxan schioccò le dita in sincronia con Teodolinda e il cuore di colui che aveva tanto aiutato nei commerci sottobanco si fermò improvvisamente.

Il grande ma ambiguo Silvanus si accasciò lentamente, resistendo alla morte finché poté, per poi cadere faccia a terra, ormai del tutto indifferente alle vicende del mondo.

“In due facciamo sempre prima” disse Teodolinda, commentando divertita quel cadavere. Coperto dal cappuccio, Habraxan sorrise.

“In ogni caso” rispose “avrebbe detto un sacco di stupidaggini. Ha disobbedito e ha spaventato la nostra cara Florence. Doveva morire di arresto cardiaco.”

Detto quello, uscì dal negozio, sprangandolo per sempre.

Lui, Teodolinda e David attesero che i disordini si calmassero affidando il compito ad Acaz e Jezrael ma quella stessa notte una parte del muro esplose nel silenzio della notte.

Habraxan si svegliò di soprassalto, abbandonando con dispiacere la mano di Teodolinda che aveva tenuto fino a quel momento.

Se la portò in bocca, come a volerne assaporare il gusto, e poi la annusò. Come sempre, aveva un tenue sapore di menta.

La Mano della Morte… era proprio lui. La ragazza accanto a lui lo stava guardando a tutt’occhi.

“Cos’è stato?” chiese allarmata. Anche David, in quel momento, aprì la porta della loro camera, trafelato e ancora cisposo di sonno.

“Fermi” ordinò, poi emise un sospiro. “ Devo raccontarvi una storia”

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